venerdì 7 marzo 2008

Matrix e i cervelli in provetta

La piccola J.V., di quattordici anni, soffriva di terribili attacchi di epilessia, ormai non poteva quasi più vivere in questo modo. Il suo medico, il dottor Wilder Penfield, dell’Istituto neurologico di Montreal, le aveva asportato la parte laterale del cranio, per esporre il lobo temporale del cervello. Penfield cercava di localizzare il punto di origine degli attacchi sondando il cervello con un elettrodo collegato ad un elettroencefalografo. Quando toccò con la punta della sonda un certo punto del lobo temporale di J.V., lei si ritrovò in un prato, con l’erba alta, e davanti a lei c’era uno sconosciuto con un sacco pieno di serpenti che le diceva: “ti piacerebbe entrare qui dentro?”.

Fantascienza? Niente affatto: gli esperimenti del dottor Penfield, condotti negli anni Trenta, sono ancora fonte di discussioni in tutto il mondo. J.V. aveva vissuto, in quella che noi chiamiamo realtà, l’esperienza dello sconosciuto con il sacco di serpenti, sette anni prima dell’operazione, e la cosa era stata un trauma per lei. Stimolata dalla sonda elettrica, la giovane non si limitava a ricordare l’evento, ma lo riviveva. Ritornava tutta la ricchezza dei particolari, tutto il limpido orrore dell’esperienza originaria. Se la sonda stimolava altri punti del cervello, si ottenevano visioni diverse: una sgridata per aver fatto qualcosa di male, oppure solo una fantasmagoria di stelle colorate.

Queste evidenze sperimentali suggerirono, negli ambienti filosofici, una specie di indovinello, chiamato “i cervelli in provetta”, che potrebbe essere posto così: voi pensate che state leggendo questo articolo. In realtà siete un cervello disincarnato in qualche laboratorio, immerso in un recipiente colmo di sostanza nutritive. Al cervello sono collegati degli elettrodi, e uno scienziato pazzo sta immettendo un flusso di impulsi elettrici che simulano esattamente l’esperienza di leggere questo articolo! Anche tutte le altre sensazioni che ricevete in questo momento potrebbero essere indotte dagli elettrodi collegati. Persino tutti i ricordi della vostra vita potrebbero essere stati indotti allo stesso modo. Allora? Vi sentite già benvenuti in Matrix?

Chi ha avuto la fortuna di vedere il film Matrix, avrà avuto modo di apprezzare esattamente lo stesso concetto. Secondo la narrazione cinematografica il mondo che vediamo è solo una beffa, un complesso inganno ordito dalle onnipotenti intelligenze artificiali che vogliono controllare e dominare l’umanità, riducendola a una pura fonte di energia.

Ma a parte la cinematografia, c’è qualcosa di serio in tutto ciò? Tornando ai cervelli in provetta e a questo articolo che forse non state leggendo veramente, bisogna ammettere che non c’è modo di dimostrare che non è così. Potreste darvi un pizzicotto, ma non proverebbe nulla. Anche la sensazione del pizzicotto potrebbe essere indotta e persino la volontà di darvelo potrebbe esserlo altrettanto.

Malgrado l’influenza di Penfield e di altri neurologi, i dubbi sulla realtà del mondo non sono un’inquietudine esclusivamente moderna. La storiella cinese di Chuang-Tzu, ad esempio, risale al IV secolo a.C. In questa favola Chuang-Tzu è un uomo che sogna di essere una farfalla, poi si sveglia e si chiede se per caso non sia invece una farfalla che sogna di essere un uomo.

Restando in Oriente, ci accorgiamo che l’aspetto fondamentale della visione orientale è la mancanza di realtà del mondo sensibile: dietro l’apparenza (il maya induista, il samsara buddista), stanno l’unità e l’armonia della vera realtà (il brahman induista, il dharmakaya buddista, il tao). Le pratiche di meditazione orientali non sono altro che dei metodi per “uscire fuori” dall’apparenza sensibile e “vedere” con occhi nuovi le vera realtà. Perché la realtà sensibile non è altro che un “sogno di Brahman”. A noi sembra vero, ma per Brahman è solo un sogno. Noi vivremmo dunque dentro il sogno di un dio… Anche in Occidente troviamo tracce di questa concezione. J.L Borges, nel suo saggio “Finzioni” (1935-1944) inserisce un racconto dal titolo “Le rovine circolari”. La storia narra di un uomo che persegue una magica ambizione: sognare un uomo con una tale minuziosa interezza da imporlo alla realtà. Dopo immensi sforzi riesce a creare questo “golem”, ma sa che il fuoco è l’unico a conoscere che la sua creatura è solo un’ombra, esso infatti non lo può bruciare. Ma un giorno il mago fu egli stesso avvolto dalle fiamme di un incendio e, con sgomento, si accorse che il fuoco non lo intaccava. Con orrore seppe che un altro mago lo stava sognando. Lo stesso Borges esprime quasi lo stesso inquietante concetto ne “La scrittura del Dio”, in cui un sacerdote azteco si sveglia da un incubo nel quale la sabbia lo soffoca, ma una voce gli dice: “Non ti sei destato alla veglia ma ad un sogno precedente. Questo sogno è dentro un altro, e così all’infinito, che è il numero dei granelli di sabbia. La strada che dovrai percorrere all’indietro è interminabile e morrai prima di esserti veramente destato”. Ne “Lo Zahir” la realtà si dissolve nel sogno quando un oggetto indimenticabile monopolizza i pensieri, mostrando come per sperimentare l’irrealtà della vita sia sufficiente vivere un’ossessione.

Andando a ritroso nel tempo, un altro pensatore che nutrì dubbi sulla realtà sensibile fu Cartesio. Nella sua “Prima meditazione” (1641) il grande filosofo e matematico affermò di non poter essere assolutamente sicuro di non stare sognando. Qui Cartesio si chiede se il mondo esterno, compreso il suo corpo, sia un’illusione creata da un “genio del male” deciso a ingannarlo. Questa, di fatto, è una anticipazione dei cervelli in provetta. Gli esperimenti di Penfield hanno semplicemente dimostrato come la fantasticheria metafisica di Cartesio possa essere fisicamente concepibile.

Naturalmente il genio del male di Cartesio o i cervelli in provetta sono solo metafore che esprimono un disagio tuttavia importante: quello della conoscenza. Ovviamente non è che dobbiamo sospettare di essere davvero dei cervelli in provetta! Ma per avere dei dubbi sulla validità di tutta la nostra conoscenza ce n’è abbastanza…

L’ambiguità della conoscenza è alla base di una famosa analogia proposta da Albert Einstein e Leopold Infeld. Nel 1938 scrissero:

“Nel nostro sforzo di comprendere la realtà siamo in un certo senso come un uomo che cerca di capire il meccanismo di un orologio chiuso. Vede il quadrante e le lancette che si muovono, sente il ticchettio, ma non riesce ad aprire la cassa. Se è ingegnoso può crearsi un’immagine di un meccanismo che potrebbe essere responsabile di tutte le cose che osserva, ma non sarebbe mai del tutto certo che la sua immagine sia l’unica possibile spiegazione delle osservazioni. Non sarà mai in grado di confrontare la sua immagine con il meccanismo reale e non può nemmeno immaginare il significato di un tale confronto”.

Ma allora esiste qualcosa di certo? Forse la domanda non ha alcun senso logico. Vi ringrazio di avermi letto fino a questo punto. Ma siete proprio sicuri che l’esperienza di leggere questo articolo sia stata reale? Pensateci…

 

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